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Il fondatore di Telegram Durov grida: la battaglia per l’anima di Internet

Dario Fadda 10 Ottobre 2025

Pavel Durov compie 41 anni, ma non ha voglia di festeggiare. Il fondatore di Telegram, spesso definito il “Zuckerberg russo” ma con un ethos da dissidente (importante notare che ha lasciato la Russia più di un decennio fa. Ha la doppia cittadinanza francese e UAE e la sua casa è a Dubai), non guarda al suo compleanno come a una ricorrenza da celebrare. Piuttosto, lo vive come un cupo promemoria: il tempo a disposizione della nostra generazione per salvare ciò che resta di un’Internet libera si sta esaurendo. È un monito lanciato non da un politico, ma da un uomo che ha costruito il suo impero sulla promessa—spesso controversa—di privacy e resistenza alla censura.

Ha lanciato un avviso che linka proprio al suo pensiero, su tutta la piattaforma Telegram, che gestisce. Con un insolito avviso che difficilmente può sfuggire.

L’ultimo grido di Durov

Il suo non è un semplice sfogo, ma un j’accuse articolato e carico di un’urgenza quasi messianica. Durov dipinge un quadro fosco di un’inversione di rotta storica: quella che doveva essere la promessa di uno scambio libero e globale di informazioni si sta trasformando, a suo dire, nell’utimo strumento di controllo. La rete, nata dalle ceneri di vecchi monopoli come progetto decentralizzato e ribelle, sta venendo riassorbita e domata da un nuovo leviatano: lo Stato digitale.

I suoi esempi sono precisi e mirati a colpire l’immaginario collettivo degli esperti di cybersecurity. Non parla per vaghe generalità. Cita l’identità digitale del Regno Unito, i controlli obbligatori sull’età online in Australia, e — punto che tocca da vicino ogni europeo — la proposta di scansione di massa delle comunicazioni private promossa dall’Unione Europea sotto l’egida della lotta al materiale pedopornografico. Per Durov, questi non sono strumenti di sicurezza, ma i mattoni di un panopticon digitale, il primo passo verso una società della sorveglianza integrale.

La sua critica si fa ancora più tagliente quando scende sul terreno della libertà d’espressione. Accusa la Germania di perseguire chi osa criticare i funzionari pubblici online, un riferimento alle rigide leggi sull’odio (NetzDG) del paese. Mette nel mirino il Regno Unito, dove migliaia di persone sono finite in carcere per i contenuti dei loro tweet. E punta il dito contro la Francia, dove, afferma, leader tecnologici che difendono privacy e libertà sono sotto inchiesta penale. È un attacco frontale alla deriva autoritaria che, secondo la sua visione, sta contaminando persino le democrazie liberali.

Il cuore del suo discorso è una denuncia di un tradimento generazionale. La nostra, dice Durov, rischia di passare alla storia come l’ultima generazione che ha conosciuto la libertà—e ha permesso che le venisse strappata via, pezzo per pezzo. Siamo stati nutriti con una menzogna, sostiene: ci hanno fatto credere che la battaglia più importante del nostro tempo fosse quella di smantellare l’eredità dei nostri padri—tradizione, privacy, sovranità, libero mercato e libera espressione.

In questo rifiuto delle radici, Durov vede non un progresso, ma un percorso verso l’autodistruzione. Un declino che non è solo morale e intellettuale, ma che ha ripercussioni concrete sull’economia e, addirittura, sulla nostra sopravvivenza biologica come società. È una visione apocalittica, forse iperbolica, ma che risuona in un ecosistema digitale sempre più regolamentato, segmentato e sorvegliato.

Il messaggio di Durov, al di là del tono drammatico, solleva questioni tecniche e filosofiche ineludibili per chiunque operi nel campo della cybersecurity. Dove tracciare il confine tra la lotta ai reati online e la preservazione dell’integrità della crittografia end-to-end? Fino a che punto l’identità digitale può essere uno strumento di inclusione e quando diventa un meccanismo di controllo sociale? La responsabilità delle piattaforme può essere demandata senza erodere il principio della privacy by design?

Durov non ha soluzioni facili da offrire, solo un cupo presagio. Il suo non è un brindisi di compleanno, ma un allarme. E mentre i legislatori di tutto il mondo continuano a scrivere le regole del futuro digitale, la domanda che lascia sospesa è se questo allarme verrà ascoltato, o se verrà sommesso dal rumore di fondo di un mondo che, secondo lui, sta dormendo mentre un futuro distopico si avvicina a grande velocità.

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