Privacy

Epstein: l’illusione dei “file risolutivi”, quando la trasparenza diventa un’arma spuntata

Dario Fadda 15 Ottobre 2025

La retorica della trasparenza assoluta, che promette di svelare ogni segreto del potere con un colpo solo, è una delle illusioni più persistenti del nostro tempo digitale. L’episodio degli “Epstein Files”, agitato come totem politico e arma di verità, dimostra quanto sia fragile la fiducia cieca negli strumenti istituzionali di accountability. Il problema non è soltanto la censura o l’occultamento: è la sofisticata capacità del sistema di produrre una simulazione di apertura, una messa in scena della trasparenza che neutralizza il dissenso e disinnesca la critica.

Negli ultimi anni, la burocrazia americana ha mostrato un’abilità crescente nel manipolare le procedure di accesso ai documenti pubblici. Chi ha provato a ottenere dati attraverso il Freedom of Information Act conosce la geografia delle omissioni: richieste ignorate, archivi “smarriti”, versioni redatte fino all’assurdo, risposte formalmente corrette ma sostanzialmente vuote. È un linguaggio tecnico che dissimula la menzogna, un algoritmo di diluizione della verità che trasforma ogni richiesta legittima in un atto sterile. L’apparato non nega mai esplicitamente, ma costruisce un deserto informativo attraverso il rispetto apparente della legge.

In questo contesto, l’idea che la pubblicazione integrale dei cosiddetti Epstein Files possa costituire un colpo di grazia contro il potere politico o mediatico è ingenua. La macchina dello Stato, come un sistema di sicurezza informatica perfettamente tarato, sa filtrare, anonimizzare, riscrivere e diffondere solo ciò che non compromette il proprio funzionamento. È la logica del “disclosure by design”: aprire per controllare, concedere per disinnescare. L’errore non è tecnico, ma epistemico. Si confonde la disponibilità dei dati con la verità dei fatti, l’accesso con la comprensione, la trasparenza con la giustizia.

La cultura della cybersecurity insegna che nessuna superficie esposta è priva di rischio. Lo stesso vale per i dati pubblici: ogni rilascio può essere calibrato per manipolare la percezione, come una patch che corregge il bug ma introduce una nuova vulnerabilità. Le istituzioni hanno imparato a gestire la narrativa della trasparenza come una componente del proprio firewall politico, fornendo informazioni parziali per mantenere il controllo sull’interpretazione. L’illusione collettiva è che basti aprire i file per vedere la verità. Ma i file, come i log di un sistema compromesso, sono già filtrati, redatti, riscritti, alterati nella loro origine.

In questa dinamica si consuma la trasformazione della democrazia in teatro di sicurezza. Le inchieste giornalistiche diventano esercizi di inferenza: non si raccontano più i fatti, ma l’assenza dei fatti. Le redazioni, come analisti digitali privi di accesso root, segnalano anomalie nei pattern di trasparenza, leggono tra le righe, costruiscono narrazioni a partire dai vuoti. È lo stesso principio che guida l’analisi delle minacce informatiche: quando l’attaccante è invisibile, l’unica prova è il silenzio dei log. Così il giornalismo americano si ritrova a operare nel dominio della negazione plausibile, dove ogni documento mancante è prova di un potere che si autoassolve.

L’ossessione per la rivelazione finale – il file che svelerà tutto, il leak che farà crollare il castello – è una forma di tecno-messianismo. La cybersecurity insegna che non esiste vulnerabilità assoluta né exploit definitivo. Ogni sistema può resistere se ha il controllo della narrativa. Nel caso degli Epstein Files, il rischio non è solo la manipolazione dei contenuti, ma la costruzione di un’illusione di verità condivisa, calibrata per produrre consenso e rassegnazione. Il rilascio parziale, la redazione selettiva, la propaganda che lo accompagna diventano strumenti di consolidamento del potere.

Ciò che resta è la normalizzazione dell’opacità. La trasparenza è stata declassata a simulacro, e chi continua a invocarla come arma politica non si accorge di giocare nello spazio controllato dall’avversario. L’unica forma di resistenza reale è la competenza: la capacità di leggere le omissioni, di analizzare le catene di custodia, di riconoscere le manipolazioni semantiche dei dati. Come nella sicurezza dei sistemi, l’unico modo per difendersi è accettare che il rischio non si elimina, si gestisce. E che la verità, nel dominio dell’informazione, non è mai un dump di file ma un processo critico.

Nel tempo in cui il potere si legittima pubblicando le proprie prove di innocenza, la ricerca della verità non passa più per i leak, ma per la decifrazione del loro linguaggio. I “file risolutivi” non esistono. Esiste solo la capacità di chi li legge di non cadere nella trappola semantica della trasparenza.

💬 [[ unisciti alla discussione! ]]


Se vuoi commentare su Epstein: l’illusione dei “file risolutivi”, quando la trasparenza diventa un’arma spuntata, utilizza la discussione sul Forum.
Condividi esempi, IOCs o tecniche di detection efficaci nel nostro 👉 forum community